L’odore dei vestiti appena stesi, il caffè che pervade la cucina con il suo aroma forte e penetrante, il sugo che cuoce a fuoco lento: tutto questo per me è casa.
Ci sono stati dei periodi in cui sono stata lontana da casa e dai miei affetti e mi è mancato tutto questo, era troppa la smania di andare, partire e mettermi alla prova, spaccare il mondo da dimenticare totalmente che la nostalgia mi avrebbe presentato il conto.
Le attenzioni della mamma che mi chiede a che ora esco e di non fare tardi altrimenti si preoccupa, la zia con cui fare shopping, le grane di mio fratello che ne faceva sempre una nuova. Sono scappata da tutto questo e quando mi sono ritrovata lontana ne ho sentito la mancanza, incalzante e impietosa.
Si danno per scontato troppe cose fino a stufarsene fino ad averne la nausea per poi abbandonarle e rimpiangerle.
È da stupidi no?
Addirittura la nostalgia si è spinta più in là: anche il panorama mi mancava, le mie belle montagne, il Gran Sasso che mi dava il buongiorno tutte le mattine non c’era più e ne soffrivo, come Heidi a Francoforte che cercava le montagne per creare un contatto con casa sua, per intenderci. Ero a quel livello lì. Il panorama che avevo di fronte era piatto e spesso c’era una nebbia fitta che non faceva vedere un accidente di niente.
Il pane appena sfornato? Non so se avete avuto l’estrema fortuna di avere una nonna che vi sfornava il pane caldo, con il suo odore inebriante che rallegrava tutta la famiglia, diventava un’occasione di festa e di aggregazione. La mia lo faceva ogni tanto e quando arrivavo a casa e mi colpiva quel profumo mi sentivo a un passo dal Paradiso, perché sono sicura doveva essere qualcosa di molto simile.
Quanto sono importanti le piccole cose? Tanto, troppo.
Quando ce ne accorgiamo? Quando ci allontaniamo, quando siamo costretti a stare chilometri da casa e tutto assume un altro sapore.
Anche la tradizione della passata di pomodoro fatta in casa che fino a quel momento avevo odiato (alzarsi all’alba e darsi da fare non era molto allettante) la ricordavo con una punta di amarezza e mi rammaricavo di non aver apprezzato di più il momento che vivevo, troppo presa da cose futili come un lui che non mi richiamava o da un’amica con cui uscire.
La cosa che però mi mandava fuori di testa era l’odore dei vestiti: usavo lo stesso detersivo, lo stesso ammorbidente di mia madre ma niente, quando facevo la lavatrice i vestiti si ostinavano a rimanere senza odore, quasi me lo facessero apposta. Anche lavandoli a mano ottenevo lo stesso risultato.

Se avessi potuto imbottigliare degli odori da portarmi dietro quello dei vestiti sarebbe stato in cima alla lista, da tuffarmici per trovare un po’ di calore.
E il camino, le invernate davanti al camino con il fuoco scoppiettante e un bel libro tra le gambe, quella per me era la felicità, niente di più. Invece mi ritrovavo dei termosifoni che emanavano un calore sinistro, quasi anomalo che mi riscaldava all’esterno ma dentro di me tirava la bora artica.
Tutto intorno a me era grigio: le case, le strade e anche le persone. Sembrava che i colori fossero stati risucchiati da un acchiappacolori che in quel caso aveva funzionato alla perfezione (a me aveva sempre dato dei pessimi risultati con il bucato). A casa mia cinguettavano i merli, gli alberi emanavano un odore piacevole e tutto intorno a me era una tavolozza di colori: qualsiasi stagione ne aveva uno proprio.

In primavera i colori erano accesi e vivi con delle giornate limpide dove il cielo era un po’ più blu e i prati si rivestivano di fiori come invitati ad una festa; l’estate emanava una magia tutta sua, le giornate lunghe e piacevoli, sembrava di vivere in un sogno. L’estate lasciava il posto all’autunno, con la sua malinconia, con le giornate che iniziavano ad accorciarsi e le montagne cambiavano colore: mille foglie di mille colori coprivano i prati come un tappeto.
Infine l’inverno, con la sua neve imbiancava i tetti e le cime delle montagne, riscoprendo la bellezza del calore di casa, piuttosto della passeggiata all’aria aperta. Tutto era imbiancato e silenzioso.
E la fretta della città dove sono stata, correvano tutti, sempre di fretta, sempre di corsa… per arrivare dove alla fin fine?
Conoscevo tutti a casa mia e mi sembrava naturale salutare per rispetto le persone che incontravo da un po’. Ma i miei sorrisi morivano spesso in bocca perché dall’altra parte trovavo un muro di diffidenza e scontrosità. I saluti in città venivano visti come qualcosa di male, qualcosa da cui allertarsi: ”Che vorrà? Perché mi guarda? Mi vorrà fregare?”.
Nulla di tutto questo, volevo essere gentile ma venivo fraintesa. Come dargli torto visto le notiziacce che ci riservono i telegiornali e i quotidiani?
Io con il mio candore innocente stonavo in quel posto grigio e diffidente, la gentilezza non era capita, le stagioni erano tutte uguali. Insomma ero fuori luogo.
Adesso sono a casa ma so che in un futuro prossimo dovrò andarmene, spiccare il volo e farcela con le mie gambe. Solo che adesso so di essere pronta e nell’attesa mi godo ogni attimo, ogni singolo momento anche il più insignificante per fare incetta di ricordi che mi aiuteranno quando sarò lontana di nuovo, in un altro posto dove ricominciare da un’altra parte con altri colori e orizzonti.
Sicura questa volta di essere nel posto giusto: a casa mia.
